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In Toscana mancano i geologi, il punto del presidente Ogt, Riccardo Martelli

Sempre meno i professionisti in una regione ad alto rischio idrogeologico

Firenze, 18 maggio 2023 - «In una regione nota per il rischio frane come la Toscana e mentre in Italia si susseguono le notizie di dissesti e disastri idrogeologici, mancano gli esperti dello studio del suolo e del sistema terrestre». A evidenziarlo, all’indomani della tragedia che ha colpito l’Emilia Romagna, è Riccardo Martelli, presidente dell’Ordine dei Geologi della Toscana.

Secondo l’edizione 2021 del Rapporto Ispra sul Dissesto Idrogeologico d’altronde, il 93,9% dei comuni italiani (7.423) è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione e la nostra regione è una di quelle che presenta valori più elevati di popolazione a rischio frane: su 22.987 chilometri quadrati di superficie, quasi la metà, il 47,2% è a pericolosità da frana. E oggi, in Toscana mancano i geologi, figure fondamentali nell’analisi e nella progettazione degli strumenti contro il rischio idrogeologico.

«A forza di frequentare i convegni o altri consessi di geologi degli ultimi 30 anni si interiorizzava per osmosi la litania secondo la quale i geologi erano poco considerati, che c’era poco lavoro, eravamo messi in secondo piano rispetto ad altre categorie dell’area tecnica. La mia generazione è cresciuta in questo clima incerto e poco motivante, ma comunque è cresciuta e ha contribuito a stabilizzare competenze e animare una professione fondamentale per lo sviluppo tecnico ed economico nell’Italia di questi ultimi decenni.

Questo cahier de doléance, ultimamente, ha perso un po’ di smalto: il mercato è diventato vorace di professionalità come quelle dei geologi e il paradosso è che ora, a fronte di una richiesta pressante da parte di aziende, studi professionali, università e pubblica amministrazione, si assiste a uno svuotamento delle aule universitarie con le iscrizioni a Scienze Geologiche in caduta libera in tutte e tre le università toscane. Detta in altri termini: oggi mancano geologi.

Mancano adesso e mancheranno sempre più nei prossimi dieci-quindici anni, se non si avrà un’inversione della tendenza attuale, che ha portato alla desertificazione dei nostri dipartimenti universitari. Tendenza questa che interessa l’intera penisola, ad eccezione di alcune realtà, legate alle economie locali, che sono state capaci di rinnovarsi con un’offerta formativa molto settorizzata.

Si inizia ad avere notizia di borse di studio bandite dalle università, che non sono assegnate perché non ci sono richieste, novità questa che dà la misura dell’esiguo numero di laureate e laureati che escono dai nostri dipartimenti. Facile dunque immaginarsi cosa accada là fuori, dove la richiesta è in aumento e facile immaginarsi in quali problemi si vengano a trovare aziende, amministrazioni o studi professionali in un momento come quello che viviamo, con una ripresa forte sostenuta da un piano nazionale che eccezionalmente mette a disposizione fondi in comparti che di solito fanno fatica a trovare finanziamenti adeguati.

Ma qual è il meccanismo che porta a non scegliere un corso di laurea che ti porta dritto nel mondo del lavoro? La spiegazione che ci diamo è che la nostra posizione di mezzo, fra la scienza e la tecnica, da un lato ci rende estremamente flessibili rispetto agli andamenti ondivaghi del mercato del lavoro, dall’altro però ci penalizza poiché l’aura dello scienziato fa sì che la nostra professionalità venga scambiata per pura passione, che è una cosa bellissima, ma spesso è percepita come vacua aspirazione a fare, solo per il piacere di fare. La realtà è molto differente, dato che la stragrande maggioranza di noi conduce vite e professioni identiche a quelle di architetti, ingegneri, geometri. Stesse riunioni, stessi problemi, stessi obiettivi.

Tuttavia la percezione al di fuori del nostro microcosmo è ancora molto diversa dalla realtà che viviamo e che, va detto, non sappiamo raccontare adeguatamente, se è vero che il giovane che deve scegliere, anche se inizialmente affascinato dalle scienze della terra, si indirizza su professioni più radicate nella cultura popolare.

Un altro aspetto che ha segnato una svolta dal nostro punto di vista, poiché fa di tutto per non indirizzare verso la scelta di un percorso di studi che avvia alla professione di geologo, è stata la modifica dei cicli scolastici e delle materie, avviata alcuni anni orsono, con la geografia messa in naftalina e la geologia che fa capolino solo nei licei, se escludiamo i costanti interventi delle nostre iscritte e iscritti nelle classi della primaria e secondaria.

La transizione ecologica richiede figure capaci di descrivere le dinamiche del territorio, di dare contributi per la ricerca e gestione di risorse naturali. E anche il cambiamento climatico, con le tragedie che proprio in questi giorni sono sotto i nostri occhi, richiedono una nuova centralità dei geologi. Dunque sì, raffiniamo i processi di riuso, ma se il modello è questo è comunque necessaria nuova materia prima, che significa nuova ricerca e, certamente, anche nuovi geologi».

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